Siamo arrivati alla conclusione del racconto donatoci dal Gentiluomo Piemontese. Qui trovate la prima e la seconda parte.
buona lettura
Merzouga, mon amour!
Molto tempo fa, nella notte dei tempi, un mattino di primavera, terminata la preghiera e spentasi la voce del meuhzzin, Allah volò sui versanti occidentali dell’Atlante. Là, le api sacre avevano raccolto il nettare dei più bei fiori ed Egli riempì di miele dolcissimo un immenso otre, grande come voi umani non potete neppure immaginare.
Poi, dalla vetta più alta della catena volò verso est e poi verso sud, alla ricerca di un luogo degno di Lui. Si fermò su Erg Chebbi e, lentamente, versò in terra il miele dell’otre. Poi chiamò il vento, perché con il suo soffio lo distendesse a suo piacere, soffiando ora forte ora piano, creando rilievi ed avvallamenti, increspature e crinali lievissimi. Aveva creato le dolci dune di Merzouga!
Io le guardo ora, all’alba, seduto su un crinale. Ai piedi della duna, là in basso, una donna berbera esce da una tenda, raggiunge un giaciglio poco discosto su cui ha dormito un bimbo: lo si capisce perché si muove al suo avvicinarsi. Lo accarezza, lo ricopre con la sua coperta pelosa e ritorna nella sua tenda. All’orizzonte, dove finiscono le dune e ricomincia l’hammada, il deserto piatto e pietroso, il sole sta sorgendo. Sulla sinistra, in basso, i nostri cammelli sono ancora accovacciati, con la gamba legata, come li hanno lasciati ieri sera Hassan e Mustafà, perché non fuggissero nella notte, lasciandoci a piedi, nell’immensità della sabbia finissima.
Mi volto. Ai piedi dell’immensa Gran Dune, tra due avvallamenti, sta il nostro piccolo bivacco. E’ formato da alcune tende rettangonali che, poste in circolo, hanno creato un piccolo cortile interno, dove abbiamo cenato ieri sera. Una splendida palma, una delle poche visibili volgendo lo sguardo tutt’intorno, emerge dal cortiletto, e sovrasta il bivacco con le sue fronde, quasi a volerlo proteggere. So che ai suoi piedi hanno dormito tamburi e tamburelli con cui, dopo cena, i cammellieri ci hanno allietati con le percussioni.
La Gran Dune ha il colore indescrivibile del miele di tiglio. Il suo crinale si staglia netto contro il cielo azzurro e, a metà circa, si profila una figura umana che sta scendendo lentamente. Da lontano sembra una giovane donna, una temeraria, certo, che ha sfidato la salita per vedere l’alba dal punto più alto. Sorrido, pensando che la sera prima, giunti dopo circa due ore di cammello, anch’io avevo tentato di raggiungere la cima ma, a tre quarti, avevo dovuto cedere ed attendere la discesa della giovane Lisa che, unica tra noi, era giunta in vetta, forte del suo allenamento.
Salendo sul crinale, e stando attento a non mettere piede in fallo per non rotolare decine di metri sotto, fino al bivacco, finendo magari contro un cammello accucciato, avevo notato che in certi punti la sabbia reggeva il mio peso e salivo agevolmente di un passo. Subito dopo, però, al passo successivo, affondavo ed era sempre più faticoso continuare. Avevo cercato di capire la legge che regolava la compattezza della sabbia: a volte mettendo il piede nell’orma di chi mi aveva preceduto, altre volte evitandolo, ma senza riuscirci e, infine, avevo rinunciato.
Mi ero seduto a guadare l’immensità del deserto che mi circondava, mentre la luce del sole si affievoliva sempre più, ed il colore delle dune assumeva sfumature cangianti e sempre diverse.
Di notte, poi, ero uscito dalla tenda, imbattendomi in un cielo nero e profondo, incantandomi a guardare lo spettacolo scintillante di migliaia di stelle, che scendevano fino all’orizzonte.
Ora è l’alba, e la luce diventa sempre più viva. Le dune sono color albicocca. Abbasso lo sguardo, e mi accorgo che lo scarabeo stercolario è mattiniero, ed è già all’opera.
Maggio 2014