ecco la seconda parte del racconto, buona lettura:
Il tornitore del souk
Stiamo girando da più di un’ora nel souk, senza una meta precisa ovviamente, storditi dal susseguirsi di botteghe di ogni tipo: tappeti, ceramiche, pelletterie, pantofole ed ogni genere immaginabile di articoli artigianali, impossibile da ricordarsi.
Ancor più interessanti, sono i tipi umani: i loro visi, i vestiti, i caffetani, le sciarpe con cui le donne si coprono solo il capo, se più giovani, o nascondono tutto il viso, se inoltratesi nella seconda o terza gioventù. Sono affascinanti i visi dei vecchi, come quello che, con barba e caffetano, sta sul limitare della sua bottega di spezie variopinte, esposte in piramidi aguzze di polveri che non si capisce come possano star su. Si sta portando la mano sinistra al petto, in un leggero inchino, e la sua espressione è impagabile mentre stringe la mano che gli porge Cristina. Sicuramente Lei deve averlo salutato con un “Salam aleicum!” e Lui starà rispondendole “Aleicum salam!”. Non si può capire se la sua espressione sia di compiacimento nel rivedere una persona già conosciuta o di stupore nel sentire che la piccola europea parla la sua stessa lingua.
Intanto, faccio progressi con l’arabo e con la psicologia locale. I venditori sono prodighi di inviti, anche soltanto ad entrare nella loro bottega o a guardare la merce esposta. Inevitabile negarsi, ma Alessandro spiega che “non è bello” farlo con un rifiuto netto e definitivo: meglio un’espressione più ambigua e dolce, che lasci aperta un’eventuale ritorno, anche se da entrambi ritenuto improbabile. Così faccio un figurone, quando, con un sorriso, declino l’invito dicendo “Munkin baden, inshallah!”, magari dopo, se Allah lo vorra!
D’un tratto l’incontro, folgorante, con un artigiano tornitore di legno. Costui produce manici di spiedi o piccoli oggetti lunghi una spanna, di impiego non immediatamente evidente, comunque torniti in modo che il diametro varia continuamente, per capirci da un massimo di circa due centimetri ad un minimo di mezzo centimetro, con parti circondate da anelli di legno. Ad affascinarmi sono la tecnologia ed il processo di lavoro usato. Mi fermo a lungo a guardarlo e lui, accortosene, me ne dà dimostrazione, tornendo un piccolo legno che mi dona come portafortuna. Seguitemi con attenzione e, soprattutto, immaginazione: è seduto su uno sgabello ed ai suoi piedi, a terra, sta una struttura in metallo su cui sono fissati due blocchi di legno massiccio, larghi quattro dita, da cui spuntano due punte metalliche contrapposte, la cui distanza è regolabile spostando orizzontalmente i blocchi di legno. Prende un cilindro di legno grezzo e lo fissa conficcando leggermente, agli estremi, le due punte metalliche: in tal modo il cilindro grezzo può ruotare su se stesso. Per farlo, lo avvolge con un giro di cordicella fissata agli estremi di una bacchetta di legno. Con la mano destra spinge avanti e indietro la bacchetta di legno che, tramite la cordicella avvolta, fa girare su se stesso il cilindro di legno grezzo. E’ la forza motrice. I piedi sono nudi.
Con il piede sinistro si appoggia saldamente a terra. Con la mano sinistra impugna un affilato scalpello da legno, che appoggia sul cilindro di legno grezzo. Mentre con la mano destra fa girare velocemente il cilindro di legno grezzo, con il dito alluce del piede destro preme sullo scalpello, in prossimità della punta tagliente. Lo scalpello incide più o meno profondamente il legno grezzo, che gira velocemente, a seconda che il dito del piede aumenti o diminuisca la pressione su di esso.
Resto incantato, a pensare che, millenni orsono, un artigiano egiziano o babilonese o greco facesse la stessa cosa. Tornito il legno, lo buca da parte a parte, ci passa un filo che annoda e me lo porge da appendere al collo. Me ne vado molto emozionato!
Nel Palazzo del Visir
Il Visir ha saputo della presenza in città di viaggiatori europei, tra cui la Scrittrice che parla arabo e l’Archeologo reduce dalla penisola arabica, e, curioso, ha voluto averci ospiti a Palazzo. L’invito, ci dice il suo emissario, è per un the alla menta, alle diciassette, nel suo palazzo. Non potevamo certo rifiutare, anzi, ed all’ora stabilita, ci troviamo puntuali al portone riccamente decorato. L’Emissario, lo chiameremo così, è pronto ad aprirci e ad invitarci ad entrare, con un sorriso ed un largo gesto della mano. Noi lo precediamo nel saluto, con l’ormai noto “Salam aleicum!”, cui risponde prontamente, da par suo. Ci dice che il Visir vuole che, prima di incontrarlo, noi si visiti il Palazzo, che lui è incaricato di mostrarci.
Ci inoltriamo così in un largo viale fiancheggiato di piante di ogni sorta, tra cui aranci e banani in fiore (spettacolo invero inconsueto per noi!), fiori di vario genere, tra cui quelli viola di una pianta alta e fronzuta. Com’è diverso questo interno rispetto allo stretto vicolo assolato e fiancheggiato da alte mura rossastre, percorso per giungere al palazzo!
Dal viale entriamo all’interno, varcando la soglia di spessi muri; subito ci colpisce la frescura che vi regna, così come nell’ampio patio cui giungiamo: un grande giardino con fiori e piante del luogo, che diffondono frescura in un silenzio che induce a guardarsi intorno ammutoliti. Il patio è diviso in quattro spicchi da due ampi marciapiedi lastricati, all’incrocio dei quali ecco zampillante una fontana in marmo (di Carrara! sussurra orgoglioso l’Emissario) sovrastata da un gazebo con un soffitto riccamente decorato.
Proseguiamo per ampi saloni le cui pareti sono adornate, nelle parti inferiori, di ceramiche e mattonelle colorate, mentre nelle parti alte ecco i complicati arabeschi in gesso. La Scrittrice ci mostra come questi arabeschi inizino sempre con l’attacco di una sura del Corano, mentre l’Archeologo ci spiega le diverse tipologie di materiali tipiche delle decorazioni arabe e marocchine.
Mi affascinano, soprattutto, i soffitti di questi ampi saloni che, come le stanze più piccole, sono riccamente decorati. Dal basso, si direbbe che si tratta di legno intarsiato o riccamente decorato, con colori di varie sfumature che ripetono motivi ornamentali che probabilmente hanno un preciso significato.
Non posso fare a meno di pensare alle decine o centinaia di sconosciuti abili artigiani marocchini che lungamente hanno lavorato sugli indispensabili soppalchi, contorti in pose stancanti, con la testa rivolta al soffitto e le mani impegnate da pennelli o legni da intarsiare. Come Michelangelo, nel suo lavoro di affresco della Cappella Sistina, ma, diversamente da Lui, ignorati dalla storia, per la maggior gloria del Visir.
L’Emissario ci ricorda che il Visir ci attende, e non è buona cosa prolungare la sua attesa. Giungiamo, quindi, in una sala più piccola, sfarzosamente allestita: Egli ci attende, con un paio di dignitari dai modi cortesi, che come lui indossano vesti eleganti e colorate. Ecco il rito del the: una giovane donna velata, misteriosa e intrigante, versa il prezioso liquido alzando in alto la teiera; poi ripete il gesto, dopo aver rimesso il thè nel recipiente: è il modo per ossigenare questa bevanda e sia ancor più buona.
Il Visir pare attratto dalla presenza della Scrittrice che parla arabo e dell’Archeologo mediorientale. Chiede alla prima se intenda visitare altri paesi islamici ed appare sorpreso e stupito quando la sente raccontare dei suoi lunghi soggiorni al Cairo e ad Amman. Si rivolge, allora, all’Archeologo, per sapere dei suoi scavi in Oman. Questi non se l’aspettava e rimane un po’ sorpreso, cercando le parole giusea nel suo meno fluente arabo. E’ così che, per non dare l’impressione di volersi pavoneggiare, si limita a dire: “Eccellenza, riempivamo carriole e carriole di materiali!”. Il Visir sorride amichevole, insieme agli altri suoi ospiti.
Beviamo l’ultimo the alla menta. Con aria berberamente sorniona e non priva di una certa superiorità che nutre nei nostri confronti, ci chiede se ci è piaciuto il suo Palazzo, che ben sa quanto sia sfarzoso. All’unisono, rispondiamo “It’s very very beautiful, Sir!!”. Non si aspettava di meno e sorride compiaciuto, sempre con quell’aria di malinconica superiorità.
Ci congediamo ed usciamo.
Riattraversando il patio mi sovviene alla mente una scena di Laurence d’Arabia. Siamo nel deserto, nel campo e nella tenda di Re Faisal. Vi sono il suo Iman e lo Sciecco Alì, Laurence ed il colonnello Bryton. Quest’ultimo, consigliere militare inglese, insiste perché il Re si ritiri 50 miglia a sud, per essere al riparo degli aerei turchi e delle loro armi moderne, che i beduini non possono contrastare. Il Re né è conscio e addolorato, ma anche fiero ed orgoglioso della sua gente e del suo mondo. Con espressione sofferta Faisal dice: “Lei ha ragione, Colonnello… noi non abbiamo la potenza degli inglesi… Ma io penso con malinconia ad un tempo lontano, all’Andalusia, all’Alhambra e ai suoi giardini… A quando Londra era un villaggio e Cordova aveva tre chilometri di illuminazione pubblica.”.